Dai cassonetti gialli italiani finiscono in Tunisia e da lì sulle bancarelle dei mercati africani, attraverso un lucroso traffico gestito dalle mafie, soprattutto la camorra. E non va meglio per i rifiuti plastici mandati in Cina: materiale in certi casi contaminato diretto a fabbriche inesistenti e smistato a destinazione dalle organizzazioni criminali. I traffici illeciti di rifiuti uniscono Genova a Tunisi e Sfax, Trieste e Livorno a Tianjin.
E’ su questo mondo che sta facendo luce un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che vede coinvolte 98 persone e 61 società, con ipotesi di reato di associazione a delinquere e traffico illecito di rifiuti.
Quello degli abiti di seconda mano è uno dei settori in cui gli affari girano più forte, ma in modo spesso opaco. Ogni anno se ne raccolgono 110mila tonnellate, per un giro d’affari di 200 milioni di euro che dalla Campania hanno portato anche su Prato gli interessi della camorra. Le aziende di Prato acquistano gli indumenti raccolti in Italia e nel nord Europa e li rivendono soprattutto in Tunisia. Una volta presi dai cassonetti gialli gestiti formalmente da associazioni benefiche e cooperative sociali, quegli abiti dovrebbero essere selezionati e igienizzati. Invece in diversi casi il trattamento viene solo dichiarato sulla carta: a subire la ‘sterilizzazione’ sono piuttosto i controlli delle autorità.
Per la Dda di Firenze, Tesmapri è l’azienda che ha realizzato maggiori profitti dalle spedizioni considerate irregolari: inviando in Tunisia 25mila tonnellate di rifiuti tessili avrebbe prodotto un giro d’affari di oltre 14 milioni di euro.
Da Prato però non partono solo gli indumenti usati, ma anche i ritagli tessili delle tante ditte cinesi di abbigliamento che hanno messo radici nella città. In questo caso i rifiuti vanno in Vietnam e in Cina, e a effettuare le spedizioni verso l’estremo oriente sono le stesse aziende cinesi, spesso prestando il proprio nome per qualche centinaio di euro: è sufficiente mentire sul contenuto dei contenitori e sperare di non essere sbugiardati dai controlli.
Ma le imprese cinesi del tessile sono buone per tutte le situazioni: a Prato si prestano a fare da paravento anche a spedizioni di scarti plastici. Gli altri anelli della filiera del malaffare sono gli spedizionieri e un manipolo di faccendieri cinesi in stretto contatto con le imprese della madrepatria, sempre a caccia di plastica da pagare bene e subito.
Le esportazioni di rifiuti plastici in Cina sono permesse a patto che organizzatore dell’esportazione e destinatario abbiano licenze rilasciate dalle autorità di quel Paese. In molti casi, tutto si gioca sull’interpretazione della norma: per molte imprese italiane la plastica pronta per il riciclo è una semplice merce e dunque non deve rispettare questi requisiti, per le autorità doganali bisogna attenersi alla normativa cinese, più restrittiva. Un orientamento confermato anche da alcune sentenze della Cassazione. Le indagini della Dda di Firenze hanno individuato centinaia di spedizioni di plastica in cui si usavano licenze di terzi, a volte conniventi e ricompensati per il disturbo, altre volte persino ignari.
Dietro ai traffici si cela spesso anche l’evasione fiscale: i carichi vengono pagati prima della partenza con bonifico da parte dell’azienda cinese, ma nella pratica il conto è più salato e viene saldato di persona dai faccendieri.
L’Espresso, 18 giugno 2017 di Veronica Ulivieri.
Estratto a cura della redazione di GOGREEN
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